Storia del Miele, dal Medioevo ai mieli uniflorali

26/07/2017 | Apicoltura, Blog, Cultura, Miele

Continua la nostra storia del miele. Da unico e prezioso dolcificante dell’età antica a comprimario dello zucchero, il miele ha dovuto reinventarsi, aumentando la propria qualità e valorizzando le sue caratteristiche di prodotto territoriale.

Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, anche il miele visse il suo particolare “Medioevo”: se da un lato esso veniva ancora considerato un alimento prezioso e ricercato, dall’altro dovette affrontare un periodo di crisi, derivato dal fatto che il lavoro apistico non subì per secoli nessuna innovazione di sorta. Nel millennio che va dal V al XV secolo, l’unico documento politico rinvenuto inerente al miele è il Capitolare de Villis emanato nel 759 da Carlo Magno secondo il quale chiunque avesse un podere doveva tenere anche api e preparare miele e idromele; chi fosse stato sorpreso a rubare miele coltivato era punibile con multe di varie entità, chi invece avesse trovato un favo abbandonato ne diventava proprietario.

Il Medioevo considerava il miele un bene prezioso, con pene e sanzioni per chi lo rubava o tralasciava di allevare le api di un proprio podere

RINASCIMENTO DI DOLCEZZA

Presso le aristocrazie europee del periodo rinascimentale, in termini di gusto, la dolcificazione, ignorata nell’Età di Mezzo che preferiva concentrarsi sulle spezie piccanti, divenne una vera e propria moda. Si preparavano intingoli dai sapori ibridi, che pervadevano l’intera sequenza delle portate di un pasto, divenuto, per arditezza di afrori e ricchezza di colori, un evento spettacolare, destinato a stupire più che a nutrire.

I sapori originari dei cibi venivano pressoché coperti e solo nel XVI secolo si arrivò a una separazione dei gusti, rinviando il dolce alla fine del banchetto. Il miele continuò ad essere utilizzato in medicina, soprattutto nell’ambito delle scienze galeniche, secondo le quali il corpo umano è costituito di un insieme di umori a cui sono associate le qualità fondamentali di caldo, freddo, secco e umido, che ciascuno deve tenere in equilibrio: al miele venivano attribuite la caratteristiche del caldo e del secco, adatte, per contrasto, a persone dal segno zodiacale d’acqua.

Secondo la filosofia galenica (dal medico e filosofo Galeno, 129-201 d.C.) i segni d’acqua assiderati dalle qualità del freddo e dell’umido e di temperamento flemmatico, dovevano ricercare alimenti caldo-secchi: carne di vitello, cacciagione, formaggi stagionati, pesce salato, cipolle, carote, castagne, noci, frutta secca, miele, abbinati a vini bianchi frizzanti.

L’AVVENTO DELLO ZUCCHERO

Nell’Età Moderna si assistette ad un’importante evoluzione dell’apicoltura in termini sia scientifici che tecnici. Premessa di tutto ciò fu la migliore conoscenza della vita e della struttura delle api: nel 1586 lo spagnolo Luis Mendez de Torres parlò per la prima volta di vertice gerarchico dell’alveare con a capo un’ape femmina e ovificatrice; pochi anni dopo gli inglesi Charles Butler e Richard Remnant dimostrarono rispettivamente che i fuchi erano maschi e le api operaie femmine. Proprio in questa fase storica, però, il miele dovette subire la concorrenza di un “nemico” formidabile, lo zucchero.

Dalla fine del Seicento ai primi dell’Ottocento venne sviluppata nelle isole caraibiche la coltivazione della canna da zucchero, mentre in Europa fu sperimentata la barbabietola. Lo zucchero divenne di uso comune solo in pieno Settecento e da quel momento iniziò un’espansione che portò la sua produzione ad aumentare di 20 volte tra il 1850 e il 1950. In termini di prezzo lo zucchero, inizialmente più caro (nella Pianura Padana ancora al momento dell’Unità d’Italia l’«oro bianco» costava più del miele), divenne di gran lunga più economico e ciò favorì il suo sviluppo presso le classi popolari. Anche la politica si inserì in questo contesto eco-gastronomico: nel 1806 infatti Napoleone mise in atto il blocco continentale contro l’Inghilterra, principale esportatrice di zucchero di canna. Ma il bisogno del “nuovo” dolcificante, come già accennato, cresceva a vista d’occhio e per supplirvi si dovette ricercare un’alternativa alla canna da zucchero: la barbabietola, appunto.

VERSO LA RAZIONALIZZAZIONE DELL’ALVEARE

Per il miele sembrava dover iniziare un periodo di marginalizzazione. Se non voleva scomparire del tutto, esso doveva puntare sulle sue intrinseche qualità, basata su tre punti essenziali: 1) un prezzo concorrenziale; 2) un sapore ancora più buono e caratteristico; 3) l’utilizzo di una tecnica di produzione più efficiente. Si fece promotore di queste istanze l’avvocato Luigi Savani, che nel 1811 scrisse un trattato dal titolo Modo per conservare le api e per estrarre il miele senza ucciderle in cui propose un’apicoltura semi-razionale che rinunciasse alla pratica dell’apicidio e producesse un miele di maggiore qualità tramite “castrazione”, cioè il prelevamento selettivo dall’alveare di favi contenti solo miele.

In questa direzione si mossero alla fine dell’Ottocento il maggiore Von Hruska e l’abate Collin, i quali idearono due invenzioni che permisero di produrre un miele sempre più pulito e libero da sostanze e sapori estranei: il primo creò lo smielatore, che permetteva di estrarre il miele senza distruggere i favi; il secondo perfezionò l’escludiregina, una griglia che, consentendo il passaggio delle api ma non della più voluminosa regina, permetteva di produrre miele in una sezione dell’alveare, evitando che nei favi riservati allo stoccaggio del miele da parte delle api fosse anche presente covata.

DAL MIELE AI MIELI

Nel Novecento si sviluppa una maggiore attenzione alla provenienza botanica dei mieli: gli importanti studi di alcuni pionieri melliflui – tra cui l’instancabile Don Giacomo Angeleri (Gamalero 1877 – Reaglie 1957), fondatore della Federazione Apistica Piemontese e autore presso al rivista L’apicoltore moderno – permisero di mettere in atto negli anni Settanta una caratterizzazione dei mieli uniflorali, con le prime analisi melissopalinologiche (origine geografica e botanica del miele), l’esplorazione e la quantificazione dei granuli pollinici rimasti come residuo in un miele, per dimostrarne la provenienza. Da questo momento in poi non si può più parlare di miele ma di “mieli”. Oggi solo in Italia ne esistono più di 50 tipi: si va da quello di acacia (il più utilizzato) a quello di arancio, da quello d’eucalipto a quello «millefiori», dal miele di sulla, a quello di corbezzolo, di eucalipto, di girasole, di tarassaco, di limone, di mandarino, di rododendro, di tiglio, di rosmarino e di moltissimi altre piante e fiori.

Brezzo produce 22 varietà di miele italiano, valorizzando e tutelando l’enorme patrimonio apistico del nostro Paese.

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