Giuseppe Brezzo, seconda generazione della famiglia, ci racconta la straordinaria avventura del padre Gervasio, pioniere del miele piemontese e dell’apicoltura nomade: tra studio, fatica e dedizione alla sua terra.

Giuseppe Brezzo
Il miele nel sangue. Nelle punture delle api a cui, dopo un po’, fai l’abitudine. Il miele sulle spalle. La cui pelle diventa come cuoio dopo che, per tutta la notte, carichi e scarichi le arnie per raggiungere i prati della Valle Maira, dove far bottinare le api sui fiori di montagna. Il miele nelle gambe. Quando per anni imbracci la bicicletta e pedali da Monteu Roero a Reaglie, tra Torino e Pino Torinese, ad ascoltare le lezioni di Don Giacomo Angeleri, il primo maestro di apicoltura in Piemonte.
La famiglia Brezzo ha un rapporto speciale con il miele. Una storia di sacrifici, di passione, di attese, di sfide. Soprattutto di fatica e di imprenditoria volta a valorizzare e promuovere un prodotto che, poco più di 50 anni fa, era tenuto in poca considerazione, utilizzato per curare un raffreddore, al più per lenire gli effetti del mal di gola.
«Ho “giocato” con le api fin dai primi anni della mia infanzia. Mi pungevano in continuazione perché imitavo mio padre che curava gli alveari in un prato vicino a casa», racconta Giuseppe Brezzo, figlio di Gervasio, fondatore, nel 1948, dell’omonima azienda. «Dopo la guerra, la mia famiglia aveva deciso di affiancare al lavoro della campagna e delle vigne – quasi distrutte dalla fillossera – una produzione di miele del Roero. Era un mezzo come altri per uscire dalla miseria di quegli anni, per integrare il salario. Quando vedevo mio padre alzare i telaini pieni di miele e sorridere riconoscevo che il suo, più che un lavoro, era la passione che avrebbe voluto tramandare alla sua famiglia e il nostro progetto per il futuro».
Non tutti però credevano nelle potenzialità del miele.
«Ricordo che mio padre, quando volle cominciare sul serio a fare apicoltura, dovette nascondere i telai dalla zia, perché non li vedesse il nonno. Solo dopo avergli dimostrato che si poteva guadagnare con il miele poté operare alla luce del sole: all’epoca ogni investimento che non fosse in agricoltura o nel solco della tradizione era considerato una spesa inutile».
La passione, però, non basta. Il miele e le api sono un’azienda complessa da far funzionare: accanto alla pratica bisogna dotarsi di una seria preparazione teorica.
«Non c’erano né scuole né maestri di apicoltura nel Roero. Per studiare, mio padre si alzava di notte, la domenica, e raggiungeva in bici Reaglie, a 70 km di distanza, dove teneva messa Don Giacomo Angeleri. Sacerdote e formidabile divulgatore, chiuso il messale, Angeleri accoglieva apicoltori da tutto il Piemonte mostrando loro tecniche e segreti per razionalizzare l’apicoltura, aumentare la qualità del miele e professionalizzare gli operatori. Svecchiava le conoscenze e le pratiche superstiziose attraverso metodi sperimentali e scientifici, aveva scritto un libro, Cinquant’anni con le api e gli apicoltori, tutt’ora un’opera fondamentale per chi si avvicina a questa professione».
A Don Angeleri si deve anche la spinta a cominciare il primo e pioneristico nomadismo delle api.
«Nessuno praticava il nomadismo delle api perché nessuno aveva ancora pensato di seguire le fioriture per produrre mieli di diversa qualità. Don Angeleri aveva un centro sperimentale a Pragelato e aveva mostrato a mio padre come portare in montagna le api e farle bottinare. Il primo camion, con 15 famiglie, fu salutato come una pazzia a Monteu Roero. Si caricava di notte, si legava tutto con delle corde, si partiva per la montagna e, prima di colazione, le arnie erano già state scaricate e piazzate nei campi. Festeggiavamo con pane, salame e qualche bicchiere di vino. Ma la vera fatica era seguire la produzione di miele lungo le stagioni. Ogni due o tre settimane, Gervasio si caricava lo smielatore sulla bicicletta e raggiungeva le arnie per raccogliere il miele appena prodotto. Solo più tardi decidemmo di attrezzare un laboratorio per la raccolta e la lavorazione in loco».
Dove portavate le api?
A Chialvetta, piccola frazione di Acceglio, in Valle Maira. Un paradiso incontaminato di prati e pascoli di montagna. Dagli anni ’50 è ancora oggi il nostro centro produttivo per il miele di montagna e il miele di rododendro.
Perché non tenevate le api in quota?
Allevare le api in montagna è estremamente difficile. Mentre in primavera e in estate trovano il clima e la flora ideale per bottinare, in inverno le temperature sono troppo rigide per la loro sopravvivenza. Il nomadismo apistico è simile alla transumanza: la bella stagione serve per “pascolare” le api seguendo le fioriture dei campi. D’inverno è necessario spostarle in luoghi più caldi e accoglienti, dove possono essere nutrite e accudite con maggiore facilità.
Quali sono le maggiori differenze fra l’apicoltura di un tempo e quella contemporanea?
A livello di tecniche, non vi sono grandi differenze. Si utilizzano la stessa cura, le stesse attenzioni, gli stessi strumenti, anche se oggi, in parte, sono meccanici e non più manuali. Oggi la quantità di miele si è tuttavia ridotta a causa dei mutamenti climatici. Le stagioni hanno temperature anomale e variabili: gelate improvvise in primavera o inverni troppo caldi disorientano le api e minano la loro produttività. Il paradosso è che un tempo si raccoglieva tanto miele da non riuscire a venderlo, mentre oggi la richiesta supera la stessa capacità di produzione. Siamo contenti, la riscoperta del miele come prodotto d’eccellenza è anche il frutto dei nostri sacrifici. Ma l’apicoltore di oggi è chiamato a una sfida: difendere la stessa sopravvivenza delle api per continuare a produrre un miele di qualità, puro, incontaminato, uniflorale, espressione viva del suo territorio d’origine.
Qual è l’aspetto dell’apicoltura che le ha regalato e continua a regalarle più soddisfazioni?
Credo che la risposta sia scritta nella storia stessa della famiglia Brezzo. Mio padre Gervasio è stato un pioniere, uno che ha creduto nel proprio territorio e nella qualità dei suoi prodotti. Dopo la guerra non si è lottato solo per la sopravvivenza, ma anche contro lo spopolamento: i giovani abbandonavano le colline per lavorare nell’industria automobilistica di Torino, allora in piena espansione. Mio padre ha regalato alla nostra famiglia una ragione per restare e per lavorare nel Roero. Lo ha fatto riscoprendo tradizioni e valori insiti nella sua stessa terra, prendendo ciò che c’era e – senza badare alla fatica e alle difficoltà – trasformandolo in un’eccellenza oggi riconosciuta e apprezzata in Italia e nel mondo.

Battista Cauda e Gervasio Brezzo vicino alle arnie di montagna